Abbiamo incontrato l’imprenditore Ciro Calise, chef de La Lampara, nonché owner degli alberghi “Mare Blu Terme” e “Miramare e Castello”, con vista sul Castello Aragonese.
Risulta alquanto arduo individuare il momento temporale in cui l’Isola di Ischia, tradizionalmente rinomata per un turismo di tipo termale, benefico e curativo, si è elevata alla stregua di un “marchio” riconoscibile in Italia e nel resto del mondo, grazie ad una serie di tratti distintivi, in grado di soddisfare i gusti, le esigenze e le passioni dei viaggiatori contemporanei.
Più semplice, diversamente, appare essere l’individuazione di alcuni imprenditori illuminati che, al culmine di significative esperienze professionali e personali, hanno investito sul valore aggiunto dei propri luoghi aviti, conferendogli lustro e prestigio. Fra questi possiamo annoverare di sicuro Ciro Calise, che incontriamo per una pausa pranzo al ristorante panoramico fine-dining “La Lampara”, al termine di una lunga, faticosa e gratificante stagione estiva ormai declinante, per una chiacchierata informale sulla sua storia individuale, e sugli obiettivi futuri.
Ciro buongiorno e complimenti per il tuo essere multi-tasking, impegnato su più fronti, credo che questo anno abbia segnato una ripresa frenetica del turismo sull’Isola di Ischia, con le tue attività certamente in grande rilievo. Se non erro, tuttavia, la tua vocazione primigenia è quella di chef, o sbaglio?
Carlo, buongiorno a te, partiamo dall’inizio, è esattamente così, diciamo che non mi sono mai fermato negli ultimi venticinque anni, con un imprimatur marcato. Mi risulta straniante rivangare i miei esordi, sono stati periodi duri, sempre circondato dall’amore – e dall’inseparabile aiuto e risorsa – della mia coniuge Anna, oggi direttrice delle strutture alberghiere che gestisco, pensa che ci conosciamo da quando eravamo adolescenti. Siamo andati a lavorare davvero precocemente, dopo la scuola alberghiera sull’isola, ci siamo diretti in Svizzera e poi a Saint Moritz, confrontandomi con una clientela dal prestigio internazionale e con una cucina prettamente di montagna, carne e selvaggina in primis.
Quale è stata la genesi della tua gestione ai Giardini Eden di Ischia, una delle più significative della tua storia professionale, ma anche di progressione come chef?
Diciamo che è un luogo che porterò per sempre nel mio cuore, perché potrei dire che ha rappresentato una sorta di summa esperienziale delle mie influenze e predilezioni dell’epoca. Abbiamo ad un certo punto deciso di rientrare qui nei nostri luoghi, non senza avere fatto insieme dei viaggi straordinari, soprattutto in Tunisia, Marocco, ma anche Estremo Oriente, in particolare Thailandia, con una serie di stilemi ed attitudini culturali poi trasfuse nell’allestimento dei Giardini Eden a Carta Romana – pensa che il simbolo della nostra vecchia società era una raffigurazione di Siddharta stilizzata – ma anche nella mia concezione di cucina dell’epoca. Correva l’anno 1998, fu un investimento economico significativo e lungimirante da parte nostra, informato all’ambizione di creare un buen retiro, un luogo che fosse lontano da tutti i canoni inveterati di accoglienza e ristorazione sull’isola.
Come credi che siano cambiate le coordinate dell’accoglienza, e della tua tecnica gastronomica, tra l’epoca trascorsa di cui mi stai narrando e le configurazioni attuali?
Potrei dire che è cambiato molto, indubbiamente i gusti dei clienti sono divenuti più compositi e stratificati, con una maggiore consapevolezza. Per ciò che concerne l’accoglienza, avevo concepito il Giardino Eden come un vero e proprio relais orientale, con tavoli sovrastati da pergolati, pali di castagno, tendaggi e broccati, ovviamente l’evoluzione è stata poi quella di allestire delle camere per il pernottamento, perché molti clienti chiedevano di soggiornare dopo avere cenato. Analogamente, la cucina era caratterizzata da forti influenze thai, potrei dire una sorta di “fusion” ante-litteram con un gusto accentuato per il decorativismo, il servizio era a campana con tavolino, seguivano impiattamenti piuttosto barocchi e d’effetto. Alcuni signature dishes, tuttavia, sono stati ideati proprio là, come il rotolo di parmigiana di melenzane, gli spaghetti fritti con gambero scottato e le cozze alla brace, prescelte ed amate anche dal giornalista Gianni Mura, durante i suoi lunghi soggiorni nelle mie strutture.
Come hai organizzato il servizio alla Lampara, ubicato sulla terrazza rooftop del Miramare e Castello?
Alla Lampara, mio nuovo ristorante fine-dining, ho cercato di lavorare per sottrazione, per inciso ho ereditato molti clienti della vecchia gestione, vi è stato un cambio sostanziale di stile, nonostante i miei piatti più significativi li abbia giocoforza dovuti portare anche qui, tanto erano richiesti. Le cotture sono molto più minimali, con influenze svariate, dalla cucina nipponica a quella greca, anche se ho un’impronta ed un sostrato chiaramente mediterraneo. Qui ho rifinito la squadra, avvalendomi dell’indispensabile operato del mio sous-chef Giancarlo Nappi, e del maitre sommelier Antonio Patalano, con una cantina piuttosto fornita, che conta più di duecento referenze. A differenza del passato, sono molto più aperto alle improvvisazioni, uso agrumi, note vegetali ed erbe aromatiche, anche nelle fasi di cottura, in funzione “sgrassante” e coprente degli eccessi di sapidità, la scommessa risiede nel saper coniugare tradizione e tecnologia, come a dire cotture ancestrali ma anche roner e camere di lievitazione, mi piace ribadire che un piatto prima si mangia con gli occhi, e poi con la bocca.
Quali sono delle esperienze che ti hanno segnato, precipuamente nella tua attività di executive chef?
Ti lascio immaginare in circa venticinque anni a cosa abbia assistito, di esperienze formative ne ho avute molte, ad esempio al Giardino Eden ho avuto come ospite a cena Carolina di Monaco, pensa che è arrivata in sandali e con jeans arrotolati alla caviglia discendendo sulla battigia dopo avere attraccato con lo yatch, aveva un tavolo riservato da anonima, è stato un grande onore cucinare per lei. Anche il Principe Fulco Ruffo di Calabria è stato un cliente esigente, fra le manifestazioni cui mi fregio di partecipare ogni anno menzionerei Ischia Safari e Festa a Vico, trovo importante confrontarmi con altri colleghi più titolati di me, dai quali ho sempre appreso tanto. Forse la trasferta più ambiziosa cui abbia atteso è stata quando ho cucinato, su invito dell’amico Pascal Vicedomini, nel 2017 ad Hollywood, Los Angeles, nell’ambito di un ricevimento afferente l’Ischia Global Film Festival, ho esportato il mio rotolone di melenzana, e due piatti di identità partenopea, come la pasta e patate e la pastiera.
Un’ultima domanda, prima della degustazione di rito delle tue preparazioni del cuore. Quanto credi che abbia inciso la tua identità di isolano nella tua personale filosofia in cucina”?
Credo in maniera significativa, pensa che quando sono tornato qui ad Ischia mi sono rivolto ad un pescatore amico personale – che chiamavo scherzosamente con l’appellativo di “ciacione”, cioè uomo pervaso da bonomia – che mi ha insegnato mille sfumature della cucina di pesce ragguagliandomi sulla disponibilità di stagione. Sono consapevole che nei prossimi anni mi attendono tante sfide ambiziose, di sicuro il mio ruolo di imprenditore qualificato passa per la valorizzazione della professione primigenia di chef, alla quale ho dedicato gran parte della carriera, e che mi ha permesso di arrivare dove sono.
Mozzafiato la degustazione conclusiva, con una teoria di piatti che rappresentano altrettante tappe della carriera dello chef Ciro Calise, una sorta di rassegna antologica dei suoi signature dishes, nella splendida terrazza della Lampara, con l’orizzonte delimitato dalla sagoma ieratica e senza tempo del Castello Aragonese.
Si inizia con il “gambero corallo”, gambero avvolto da spaghetti fritti, guarnito da insalata dell’orto, proseguendo con il “rotolone di parmigiana di melanzane” – croccante e perfetta la panatura esterna – seguito dalle cozze alla brace, condite con una salsa verde originariamente usate per la marinatura della carne, e traslata ai mitili con immaginifica creatività.
Conclusione riservata allo spaghetto – di Pastificio dei Campi – con il riccio locale, ed infine al binomio di dessert “delizia al limone” e “panna cotta in zuppetta di frutti rossi”, in sapiente pairing – a cura del sommelier Patalano – il Metodo Classico Dosaggio Zero Nebolè 2015 di Travaglini, ed infine il Moscato D’Asti da sovrappassimento Spurì Cascina Galletto 2020 dell’azienda Fabio Perrone. Una degustazione davvero memorabile perché, parafrasando il medesimo chef Ciro Calise, “tutto ciò che viene dalla mia cucina è cresciuto nel mio cuore”.Photos credit: Carlo Straface