Giuseppe Amato, un salentino doc, che ama ogni terra che l’ha ospitato. Afferma che l’Italia è come una tela piena di colori di grande profondità e ogni territorio ha le sue immense ricchezze che talvolta tendiamo a non valorizzare a pieno.
Sin da bambino ho sempre cucinato ciò che mi piaceva mangiare spesso sotto le ali di nonna, ma in realtà nella vita ha fatto un percorso di studi totalmente differente, prima frequentando il liceo scientifico, e poi la facoltà di giurisprudenza, sino a quando nonostante i miei ottimi rendimenti nello studio ho deciso di seguire le mie passioni, altrimenti, come afferma: sarebbe sempre rimasto un anima in pena” .All’inizio è stato molto difficile soprattutto riferire alla sua famiglia questa mia scelta ma ancor di più far capire loro che la cucina sarebbe diventata di lì a poco la sua vita. Tutto ebbe inizio venendo a conoscenza della scuola internazionale di cucina ALMA dove ho frequentato prima il corso tecniche di base e poi il superiore, da lì e nato il suo bellissimo percorso professionale
Ciao Giuseppe, come ti sei avvicinato alla cucina?
Mi sono avvicinato alla cucina sicuramente grazie a mia zia e alla mia nonna, la cultura della buona cucina in casa nostra ha sempre fatto da padrona, con influenze del nord e del centro Italia divenute parte integrante del ricettario di famiglia, indubbiamente tutto comincio sotto le ali della nonna, sicuramente la mia memoria ed il mio gusto cominciò a formarsi con lei.
Hai frequentato il corso ALMA, cosa porti con te di quell’esperienza?
Porto con me grandi ricordi, esperienza unica, con un corpo docente super qualificato, una formazione completa senza lasciare nulla al caso, la formazione di un cuoco che finalmente diviene pensante, che diviene fautore di gesti e di un etica professionale su cui poggia il nostro mestiere, ancora porto con me le indimenticabili lezioni con lo chef Soldati.
Hai avuto diverse esperienze lavorative (L’Altro Baffo Ristorante, Ristorante Il Portico) che cosa ti hanno lascito?
Sicuramente due bellissime esperienze, la prima in cui ho appreso un gesto estremamente femminile della chef Cristina ma soprattutto di sua mamma che nonostante l’età mi incantato davanti ai fornelli, cucinava con amore e con una gestualità quasi ancestrale.
L’esperienza al ristornante IL PORTICO mi ha segnato nel profondo ,appena uscito da una scuola come quella di marchesi entrare nella cucina di paolo lopriore era quasi un sogno e da lui è incominciata la mia grande riflessione sulla cucina e sull’essere cuoco .sono letteralmente stato illuminato dal suo sapere ,un cuoco d’altri tempi artigiano della cottura ,nella cucina aleggiavano ancora i gesti del Sig Marchesi ed io ero felice ,in quella cucina succede qualcosa di meraviglioso, qualcosa di incomprensibile a molti ,lavorare con un genio come lui mi ha aperto un mondo fino ad allora inesplorato.
Inoltre hai lavorato con Marco Vigano dell’Aux Anges di Roanne, com’è andata?
Benissimo volevo fortemente andare in Francia ed è stato bello poichè lui è uno dei grandi allievi di lopriore quindi per me è come se fosse stato un prolungamento dell’esperienza al PORTICO ,però vivere in Francia ,poter comprendere il loro immenso sapere sul cibo ,poter andare tutte le mattine al mercato , alla “boucherie” per selezionare le carni è stato meraviglioso ,mi ha lasciato molto ,ho visto ed ho appreso tanto in primis il rigore e l’organizzazione meticolosa , ed inoltre la tecnica che unita alla variopinta cultura gastronomica italiana crea un matrimonio d’amore.
Quali sono le differenze che hai potuto notare tra la ristorazione italiana e quella d’oltralpe?
La cucina francese è tecnicismo applicato al cibo ,anche nei piatti da brasserie o semplicemente quelli “fait maison” vi è una grande tecnica ,il cibo è una cosa molto seria di un valore inestimabile, loro vivono il cibo con grande rigore e talvolta questa rigidità traspare nel cibo nonostante anche il cibo della tradizione francese sia molto confortante e rassicurante nei gusti ,la cucina italiana invece è molto più selvaggia ,non segue regole, segue i microclimi e le influenze che ogni minuscolo territorio ha, dal più piccolo paesino delle alpi sino alla Sicilia. Il cibo italiano è vivo ,risulta essere di una comprensione immediata ,violenta è un cibo che non si dimentica perchè l’ingrediente segreto è l’amore delle madri e delle nostre nonne ,il nostro cibo il più delle volte è matriarcale ,in Italia è la donna che comanda a tavola e quando cucina per la sua famiglia ci mette l’amore ingrediente segreto per eccellenza che trascende sempre la tecnica , il nostro cibo punta all’anima ,la varietà di ingredienti di ogni singola terra diviene il mezzo per comunicare un territorio e il modo in cui lo si vive
Attualmente sei da Caino Relais & Chateaux, il regno di Valeria Piccini, ci racconti qualcosa in più?
Esperienza unica ,ero arrivato qui come commis, ora faccio il sous chef ed è per me un grande onore poter lavorare fianco a fianco con una delle donne portabandiere del nostro patrimonio enogastronomico ,per me lei è come una mamma ,mi guida, scherziamo ridiamo creiamo insieme sempre ,per me è una grandissima mentore assieme ad Andrea, suo figlio patron e direttore di sala, una donna dal sapere immenso ,musa inspiratrice per noi tutti ,una cuoca d’altri tempi che ama ciò che fa e cerca di farlo al meglio .In lei coesiste la figura di una chef 2 stelle Michelin e di una mamma che cucina per i suoi figli , il cliente per lei diviene qualcuno d’amare, e il suo cibo parla d’amore
Ti senti più chef o cuoco?
Lo chef non cheffeggia ,il cuoco cucina ,assolutamente mi sento un cuoco ,anzi un cuciniere artigiano della cottura che segue le regole imposte dalla natura nostra unica guida
Cucina materica, naturale ed imperfetta.
Una cucina in cui tutto si concentra sulla materia prima e sulla sua valorizzazione ,seguendo esclusivamente la natura sovrana che ci governa e che regola il nostro processo creativo ,e infine imperfetta, perchè l’imperfezione diviene un concetto a me caro poichè credo che la perfezione sia un concetto troppo circoscritto e nel momento stesso in cui un piatto raggiunge l’apparente perfezione perda in energia e un piatto deve parlare e deve avere una sua espressività, la perfezione a mio avviso è qualcosa di statico che penalizza l’elemento emozionale fondamentale nel mio modo di vedere il cibo.
Sei pugliese, qual è il piatto della tradizione della tua terra al quale sei più legato e perché?
Il mio piatto della memoria sono sicuramente le sagne con il ragout di maiale e la ricotta forte (chiamata volgarmente ricotta scanta data la sua fermentazione e il suo gusto pungente), un piatto sunto della salentina che parla di una terra arida e selvaggia piena di ricchezze nascoste. È un piatto incredibile partendo dalla pasta assolutamente fatta in casa con la semola di grano duro rimacinata, il ragout di maiale cotto per molte ore il cui odore impregna le case nei giorni di festa ed infine un tocco di ricotta che conferisce al piatto un’ulteriore cremosità durante la mantecatura e quella pungenza violenta tipica della cucina pugliese e nel mio caso di quella salentina.
Sei giovanissimo, avrai sicuramente un sogno nel cassetto, qual è?
Assolutamente il mio più grande sogno è quello di vivere donando piacere attraverso il mio cibo, potermi raccontare attraverso la materia prima, e tramite quest’ultima far scoprire il nostro paese, essere cuochi italiani è una grande responsabilità , nei nostri piatti rivivono gesti di grande ricchezza, cuciniamo attraverso gesti a noi trasmessi dalle nostre donne, per tutti noi cucinare non è solo cucinare ma è un atto d’ amore, e l’amore è una cosa meravigliosa.