La Pastiera Napoletana è una torta di pasta frolla, che come suggerisce il nome, ha origini tipicamente campane. All’aspetto potrebbe ricordare una crostata, ma in realtà risulta essere farcita in modo più ricco e particolare.
Il grano cotto aromatizzato è l’ingrediente di base, insieme alla ricotta possibilmente ovina. Poi non possono mancare gli agrumi canditi e l’essenza di fiori d’arancio.
Come per tante altre ricette tradizionali, esistono diverse varianti più o meno ricche. Di famiglia in famiglia, si sono sviluppate seguendo i gusti personali, e gli ingredienti che si avevano a disposizione.
Nasce come dolce tipico del periodo di Pasqua, ma oggi non è raro trovarla in molte pasticcerie, durante tutto l’anno. Per il suo successo, e per il grande valore assunto in merito alla territorialità e alla tradizione, la Pastiera Napoletana è stata inserita nell’elenco dei PAT, i Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Campania. Rientra quindi in quelle produzioni gastronomiche, che si contraddistinguono da almeno 25 anni.
Alla sua origine sono legate molte storie ed infiniti aneddoti, tutti ugualmente affascinanti ed evocativi. Una cosa è certa, la Pastiera Napoletana rappresenta un dono portatore di felicità e delizia. Preparazione diffusa inizialmente tra le classi sociali più benestanti, è diventata col tempo il dolce di tutti.
Nel suo interno i frutti più preziosi della natura. La farina, il grano, le uova, la ricotta, l’essenza di fiori d’arancio, lo zucchero e le spezie, si uniscono a formare un perfetto connubio di sapori e consistenze.
Non si può non ricordare un episodio storico che descrive perfettamente la reazione che suscita in coloro che hanno il piacere di gustarla.
Questo racconto, che ha il sentore di leggenda, ha come protagonista Maria Teresa d’Austria, consorte di Re Ferdinando II di Borbone. Conosciuta come donna dal carattere austero e poco incline al sorriso, si dice che davanti ad una fetta di Pastiera, nell’assaggiarla, il suo viso si illuminò, cambiando espressione, arrivando a sembrare lieta di quel regalo inaspettato.
Il marito sorpreso pronunciò una frase che è rimasta nella storia:
“E mò c’o saccio, ordino al cuoco che, a partir d’adesso, stà Pastiera la faccia un po’ più spesso. Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno, pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”
“Per farti ridere ci vuole la Pastiera? Allora chiederò al cuoco di prepararla più spesso!”
Fortissimo il simbolismo religioso che lega la Pastiera Napoletana ai riti della Settimana Santa, che spaziano arrivando anche a quelli più antichi del paganesimo. Gli ingredienti usati sono strettamente connessi a questi messaggi. Dalle uova che rappresentano la rinascita, al grano emblema di vita e prosperità, fino all’acqua di fiori d’arancio, estratta dalle zagare che profumano di primavera.
Lo stesso nome “Pastiera” deriverebbe dal napoletano “pastenare” ossia piantare. In latino “pastinare”, zappare, riporta al legame tra questo dolce e i cerimoniali per propiziare la fertilità del terreno.
La sua preparazione si può considerare una vera e propria consuetudine di famiglia. Per questo ho deciso di chiedere aiuto a Giuseppe Falanga. Un amico, maestro e Chef di grande esperienza, originario di Torre del Greco, che mi ha raccontato cosa accadeva nella sua casa, durante il periodo che precedeva la Pasqua. Oggi Giuseppe si è trasferito stabilmente in Sardegna assorbendo la cultura gastronomica locale. Può quindi, con cognizione di causa, comparare le due diverse realtà.
I preparativi per questa festa cominciavano con largo anticipo. Almeno due settimane prima ci si recava dal macellaio di quartiere per procacciarsi il grasso di maiale col quale ricavare lo strutto. Ingrediente indispensabile per tante preparazioni. Lo strutto o sugna, a Napoli e provincia viene chiamato “A Zogna“.
Il grasso, eliminata la cotenna, si tagliava a piccoli pezzi e si faceva cuocere a fuoco lento e costante. Doveva sobbollire a lungo, all’interno di capienti paioli di rame o di acciaio, così che l’umidità potesse evaporare e restasse sul fondo solamente la parte grassa.
Quando i pezzi di grasso si erano ridotti e avevano preso un bel colore dorato, venivano tolti dalla pentola con una schiumarola. Poi utilizzando un canovaccio o un piccolo torchio andavano vigorosamente strizzati.
La parte liquida che si otteneva era lo strutto, la parte solida residua era formata dai cicoli napoletani.
Questi ultimi, erano ulteriormente lavorati aggiungendo aromi, come i chiodi di garofano, la cannella, l’alloro, il pepe, la noce moscata e il sale a seconda della ricetta.
La sugna ancora liquida si filtrava e si rovesciava in contenitori di vetro con tappo a pressione con la guarnizione ermetica. Riposta in un luogo fresco, veniva lasciata solidificare fino al suo utilizzo.
La Pasqua in Campania è molto sentita, si santifica la ricorrenza seguendo i precetti religiosi, ma la vera festa inizia a tavola. La realizzazione della Pastiera, era parte integrante della Settimana Santa.
Essendo un dolce molto laborioso, si organizzavano i preparativi già a metà settimana. Si iniziava a preparare l’impasto per la frolla e soprattutto ci si dedicava al grano. Indispensabile per il ripieno, richiedeva molte ore di attenta cottura nel latte, con la cannella e la vaniglia, durante le quali doveva essere costantemente mescolato.
Il Giovedì Santo si riuniva l’intera famiglia per comporre il dolce, andando spesso a modificare la ricetta a seconda dei gusti personali. Le varianti sono davvero tante. Con o senza canditi, con il grano intero oppure frullato, ricotta vaccina al posto di quella di pecora. E ancora, c’è chi aggiunge la crema pasticcera al ripieno per renderlo ancora più goloso.
Ma tutti, secondo la tradizione, rispettano la regola delle sette strisce di frolla che vanno a ricoprire il ripieno della Pastiera. Tre in un verso e quattro nell’altro per formare dei rombi perfetti. E qui si torna alla leggenda, che si riferisce ai sette quartieri del centro storico di Napoli: i tre Decumani (superiore, maggiore e inferiore) e i quattro Cardini (i vicoli) della città antica.
Il giorno di Pasqua la tavola era opulenta, ricchissima di tante preparazioni salate e dolci. Dopo la preparazione dello strutto, si procedeva a realizzare non solo la Pastiera Napoletana, ma anche il casatiello dolce e il casatiello salato, e il prestifatto. Altro dolce che ricorda un pan di spagna aromatizzato, cosparso di codette colorate.
Un’altra caratteristica delle feste pasquali campane, è l’utilizzo del “criscito” ovvero della pasta di riporto, quella lievitata che producevano i fornai.
Ogni famiglia riceveva un po’ di questo lievito naturale per aggiungerlo agli impasti dei casatielli.
Ogni superficie delle case, in quei giorni era ricoperta da canovacci, teli, persino lenzuola sotto le quali crescevano gli impasti da cuocere. Le cotture avvenivano nel corso delle 24 ore, quindi, poteva capitare di dover rispettare il proprio turno nel cuore della notte.
Una pastiera Napoletana, per essere buona, deve essere cotta alla perfezione, e questo passaggio richiede molte ore. Non si prepara mai una sola pastiera per volta. Ogni famiglia ne produce tante, per il consumo personale e sopratutto da regalare come augurio di Buona Pasqua.
Un dolce che richiede attenzione e pazienza che rappresenta quanto di meglio si possa donare agli altri: il proprio tempo unito all’amore che si usato per prepararla.
Il giorno di Pasqua, la famiglia riunita intorno alla tavola consumava la carne insieme a questi lievitati.
A Pasquetta invece, si consumavano gli avanzi del giorno prima, insieme a grandi quantitativi di salumi e formaggi tipici, con il pane fresco e soprattutto la frittata di maccheroni.
Era uso spostarsi nelle campagne intorno al Vesuvio portando con sé ogni ben di dio. Le famiglie sceglievano un luogo ideale nei boschi, dove i ragazzi potevano divertirsi e insieme trascorrere una giornata all’aria aperta.
Abbiamo chiesto ad alcuni chef e professionisti del settore, di donarci le loro ricette della Pastiera Napoletana.