Roberto, tu hai lavorato 22 anni per la Guida Michelin, in che periodo?
Dal 1978 al 2000, gli anni d’oro. Adesso molto è cambiato, perché si prendono delle decisioni, che a mio parere, sono meno condivisibili.
Oggi si è ridotto tutto a una questione di soldi?
Non lo so se nello specifico sia una questione di soldi. Io leggo, osservo, commento con un certo distacco. Perché chi è fuori non può più esprimere giudizi ufficiali, perché se no, sembra che voglia avere una rivalsa, ma in realtà, credimi, non è così.
Ritengo che alcune scelte siano quantomeno intempestive. Poi c’è una sorta di palese immobilismo: locali nuovi che magari sono inseriti appena tre mesi dopo l’apertura, mentre locali solidi, con una storia, che vengono ignorati.
E questo poi, può determinare che certe stelle come arrivano se ne vadano velocemente…
Il problema vero poi Sara, sai qual è? La sensazione è che ormai anche l’omino di gomma si stia facendo prendere dall’apparenza, e pur di trovare novità e creare contenuti stia perdendo di vista il messaggio che ha sempre trasmesso.
Da sempre la Michelin rappresenta un’organizzazione molto prestigiosa, valida, basata su criteri di scelta chiari, indiscutibili. Ecco, adesso sembra che l’equilibrio si stia incrinando, forse perché ci sono troppe manifestazioni simili, o forse perché i modelli di assegnazione sono cambiati diventando meno severi.
Oggi, per il bisogno di stare sempre al centro dell’attenzione, si sono allargate un po’ le maglie, e questo, paradossalmente, anziché rendere la Guida ancora più nota, la svilisce e le fa perdere credibilità e autorevolezza.
Ti faccio una precisazione. La Michelin ha sempre affermato che la Guida è una selezione, non è un elenco. Per questo motivo, non può contenere qualunque ristorante, che tratti qualunque tipo di ristorazione. Questo punto fermo ha dato all’azienda francese una chiara fama, meritata o immeritata che sia.
Il discorso della selezione, vale sia per i ristoranti che per gli alberghi. Fermo restando che, se io oggi escludo dalla guida un albergo molto noto, la cosa nasce e muore li, non succede nulla o quasi. Se, 20 anni fa, non avessi citato il Ritz Bar di Parigi, sarebbe stato diverso, e più di qualcuno si sarebbe fatto delle domande davanti ad una scelta così evidente.
Ultimamente, si sono verificati casi di entrate e uscite dalla Guida così repentine che viene naturale chiedersi cosa mai sia successo. Perché in questo modo, si finisce per perdere valore agli occhi di tanti.
Io stesso, quando racconto quale fosse la mia attività, mi trovo davanti a rimostranze di persone che asseriscono, senza ombra di dubbio, che col tempo la Guida sia cambiata e non in meglio.
C’è chi afferma che sembra si prendano delle cantonate, frutto di decisioni affrettate con troppi dubbi non chiariti. Non so se questo sia dovuto ad un cambiamento dei criteri legati alla selezione, e in realtà, non trovo una risposta esaustiva. Perché al momento, essendo fuori dal contesto non ho né la veste, né l’autorità, né tantomeno la voglia di argomentare su questi temi.
C’è da dire che la pandemia ma non solo, ha portato ad una crisi globale della cucina fine-dining.
Quello che stiamo vivendo è un momento di transizione, ora bisogna interrogarsi e cercare di capire dove porterà questo percorso. Parlando con colleghi, sia della tv che della carta stampata, ho sempre dichiarato che, secondo me, in questi ultimi anni, si è data troppa enfasi al gran numero di trasmissioni che trattano di cucina.
È arrivato il tempo di darci un taglio, perché la gente non capisce se quello che le viene raccontato sia reale. Presa dalla “sceneggiatura” finisce col pensare che fare cucina sia equiparabile ed una passeggiata nel parco. Chiaramente non è così!
Per citarne una, trasmissioni come MasterChef, mostrano concorrenti che hanno come massima aspirazione, quella di diventare famosi cuochi, esibendosi nell’esecuzione di piatti elaborati e scenografici da servire ai potenziali futuri clienti, se mai arriveranno a coronare il loro sogno.
Ora, anche io se mi ci metto, riesco a ultimare una preparazione decente nello stesso lasso di tempo. Ma proviamo a far uscire 50 coperti in due ore e vediamo come va! I cuochi sono un’altra cosa, non quelli che si concentrano più sulla bellezza che sulla sostanza, andando a vendere un’immagine della cucina che non è quella vera!
Lo stesso Gualtiero Marchesi, ai suoi tempi, ripeteva agli allievi: – meno Star in televisione più stare in cucina. –
Mi è stato detto che sono retrogrado, sarà, ma oggi si mangia poco, in piatti enormi, a prezzi che non sono giustificati. Si, è vero, si comincia ad assaporare con gli occhi, però, bocca e stomaco, prima del portafogli, vorrebbero in qualche modo partecipare.
Partendo dalla Spagna, con Ferran Adrià, la cucina modernista e molecolare, si è diffusa nel resto del mondo. Lui un genio precursore, gli altri, spesso degli emulatori seriali. I piatti sono cambiati, gli chef anche, e con l’alibi di voler diffondere il proprio messaggio personale, si è finito col creare un tipo di cucina che soddisfa più lo chef del cliente pagante. Sei d’accordo?
Purtroppo, oggi è quasi sempre così. I signori cuochi, (gli chef sono altri), hanno notoriamente un ego smisurato, e i primi ad alimentarlo sono proprio loro. La mattina, si guardano allo specchio, tessono le proprie lodi e poi vanno in cucina. Che cosa producono e per chi?
Sicuramente prima piatti che soddisfano la propria vanità, poi piatti da poter vendere per fare soldi. Solo dopo arrivano i pareri dei clienti che, se ci sono, bene, se no non gliene frega nulla. Anche davanti a consigli amichevoli, – guarda che questo piatto, fatto così, piace solo a te -, non si scompongono, e continuano sulla propria strada senza uscita.
E come campano questi?
Quando hai delle grandi aziende alle spalle che ti tengono aperta la cassa e te la farciscono di risorse, è tutto molto più facile.
Quindi alla fine è solo immagine? Se queste grandi aziende continuano ad investire su personaggi piuttosto che su professionisti che creano qualcosa di concreto, dovrebbe essere questa la base.
Condivido. Per quanto valga il mio parere, avevo proposto, per vie traverse, alle aziende che stanno investendo capitali notevoli, di destinare una percentuale di queste cifre, alla formazione nelle scuole alberghiere, andando a finanziarle privatamente. In questo modo, oltre a ottenere un vantaggio fiscale, avrebbero potuto allevare tante nidiate di pulcini, destinati a diventare falchi e a volare alto nel campo della ristorazione. Si dovrebbe puntare sul futuro, per garantire il mercato di domani.
Preferiscono invece impegnare, non so con quale ritorno e di che entità, un sacco di soldi in manifestazioni, sponsorizzazioni, omaggi e qualunque altra pratica, apparentemente molto meno costruttiva e lungimirante.
Se non dai alle nuove generazioni le basi, non avranno nulla su cui costruire, e le basi le ottieni a scuola con lo studio e l’impegno. Si, d’accordo, puoi andare a imparare il mestiere ma non è la stessa cosa. Devi fare molti più anni per raggiungere risultati che difficilmente riescono ad arrivare a quei livelli.
Come ti spieghi la crisi diffusa soprattutto tra i ristoranti di fascia alta?
Basta fare quattro conti. A me capita di andare ancora in giro e di notare che i prezzi applicati non sono esattamente alla portata di tutti. È vero, ci sono tante voci che incidono negativamente sull’importo finale. Dal caro bollette, al prezzo delle materie prime, fino alla mancanza di personale. Ma questo non basta a giustificare il costo di un piatto, che spesso viene definito in maniera assolutamente assurda.
Qualche tempo fa sono stato contattato da un ristoratore che mi ha chiesto un parere sulla gestione economica della sua attività. Purtroppo, mi sono immediatamente reso conto, che questo professionista non aveva la più pallida idea di cosa fosse il food cost e di come dovesse stabilire il prezzo di vendita, quindi ha ben pensato di improvvisare.
Sembra assurdo, ma questo succede sempre più spesso. E allora, davanti alla crisi, si tenta di correre ai ripari fino ad accorgersi, a volte troppo tardi, che se fai il prezzo troppo alto vai fuori dal mercato, mentre se applichi un prezzo troppo basso non rientri nelle spese.
Oggi per aprire un ristorante, non basta dedicarsi alla cucina e all’accoglienza ma è indispensabile essere degli imprenditori preparati.
Per praticare altre professioni, vedi l’avvocato, il medico o il pilota d’aereo devi prima seguire un corso di studi complesso. Devi fare un praticantato, ottenere un brevetto, insomma ti ci devi dedicare in modo impegnativo.
Nel caso del ristoratore invece, basta avere semplicemente un capitale da investire e uno può decidere dall’oggi al domani di aprire un locale. Questo però diventa un gioco al massacro. Non so tra quanti anni, magari anche pochi, vedremo i risultati di questa politica della polverizzazione.
Cosa pensi della difficoltà che hanno in tanti a trovare personale specializzato?
Di recente ho visto un locale che prometteva una prossima apertura, con affisso nell’ingresso principale, un cartello dove era riportato l’elenco di tutta una serie di figure professionali da assumere, dal cuoco al lavapiatti, passando per il sommelier, fino al maître. Sono rimasto basito e mi sono chiesto, – ma come, vuoi aprire un ristorante e non hai il personale? – Insomma, una totale mancanza di programmazione.
A questo aggiungiamo che, quando io mi occupavo di formazione, e ancora ogni tanto lo faccio, trovavo spesso dei ristoratori che mi dicevano seraficamente: – ma no, la formazione non serve perché costa cara, lasciamo che i dipendenti imparino sul campo. Ma nessuno, in questi casi, pensa a quanti danni potenziali può causare una persona impreparata in qualunque reparto tu la collochi.
Ci si chiede poi, come mai non si trovi personale che voglia lavorare nei ristoranti. La risposta è davanti agli occhi di tutti: sottoposti a orari impossibili, spesso bistrattati e costretti a svolgere qualsiasi mansione, con stipendi quasi da insulto. I ristoratori non sono nelle condizioni di potersi lamentare, perché non è stato seminato bene fino a ora, e i risultati sono questi.
Critiche gastronomiche e recensioni, come sono state condizionate dal mondo dei Social?
Pensiamo a queste nuove forme di pubblicità legate al cibo come The Fork. A mio parere, non aiutano il ristoratore che le utilizza, perché il cliente paga una cifra falsata, consumando a prezzo di costo, e difficilmente poi si sente motivato a tornare. Insomma, la considero una grande messa in scena per un pubblico destinato a diminuire sempre di più.
Per non parlare di Tripadvisor che è diventata una vera e propria arma incontrollata nelle mani di persone che non sanno usarla, e per questo continuerò a parlarne in modo non lusinghiero e ossessivamente contro, in qualunque sede.
Conosco ristoratori che hanno avuto grossi problemi a causa di queste recensioni fatte nella maniera più sbagliata.
Risultano poi praticamente impossibili da controllare e da cancellare. Forti della libertà di espressione, gli amministratori non intervengono se non in caso di affermazioni palesemente false e documentabili, cosa piuttosto difficile da dimostrare.
C’è gente che è finita in tribunale per questo motivo. Io stesso, lo scorso anno a Roma, sono stato convocato come testimone contro Tripadvisor che ha tentato di ricusarmi. Questa esperienza mi ha fatto capire ancora di più che la situazione non è del tutto limpida.
Persino i social li hanno fatti diventare motivo di ilarità, andando a riportare delle recensioni assolutamente improbabili, scritte addirittura da chi in quei posti non c’è mai stato e che lascia comunque un parere basato sul nulla.
Così uno strumento che poteva essere utile per la collettività, è diventato un qualcosa di inutilizzabile e di poco credibile se non odiato, soprattutto da chi lavora nel settore.
Ci sono discorsi economici in ballo, perché ogni recensione porta dei click e quindi fa salire il volume d’affari. Oppure fanno delle proposte di business listing ai ristoratori, dicendo loro che, se sottoscrivono dei contratti, possono avere dei tornaconti importanti. La cosa che mi lascia perplesso è che c’è gente che abbocca, anche se deve pagare cifre alte, convinta di poterli gestire.
Per non parlare dei giornalisti che sono invitati a mangiare e scrivono ciò che il ristoratore desidera leggere. Questa è una cosa poco condivisibile perché a quel punto, fai un redazionale pubblicitario e lo specifichi, così che chi legge sappia di cosa si tratta.
Puoi citarmi un concorso di cucina e di pasticceria attualmente ancora valido che dia dei titoli giustificati? E cosa pensi dei concorsi definiti mondiali o internazionali nei vari settori delle produzioni enogastronomiche, dal pane alla pizza passando per i panettoni?
Adesso mi faccio un sacco di amici, ma devo dire che, a mio parere, non ne è rimasto più neanche uno. Chiunque è libero di premiare chi gli fa più piacere, chi gli fa più comodo, chi gli dà un qualsivoglia tornaconto. Il problema si presenta quando ad ottobre del 2022 viene proclamato il miglior panettone dell’anno e ancora non siamo a Natale. A quel punto, per correttezza e coerenza, mi devi dire quali siano i criteri usati per giudicare, quali i requisiti per partecipare e non ultimo, chi l’ha eletto tale.
Professionisti che mettono l’anima e il cuore nella propria attività, diventano patetici protagonisti di questi concorsi che non rendono certo un buon servizio alla ristorazione. Ridicoli, ormai purtroppo sono diventati ridicoli.
Sono sempre stato piuttosto contrario alla teatralità. Avendo svolto il mestiere del critico gastronomico per oltre 20 anni, ho imparato una cosa importante, e cioè che i giudizi migliori si danno da perfetti sconosciuti. Quando entravo nei ristoranti, nessuno sapeva chi fossi. L’anonimato è una condizione indispensabile per esprimere dei pareri obbiettivi.
Primo perché mi metteva nelle condizioni di poter curiosare in tutti gli angoli del locale e non creava agitazione. Poi perché, se io mi fossi presentato prima della consumazione, probabilmente avrei avuto dei trattamenti faraonici, non corrispondenti a quelli realmente offerti ai clienti abituali.
Oggi questa condizione di privacy è garantita?
Oggi non è garantita per niente. Ti faccio un esempio che per me è calzante, Valerio M. Visintin rappresenta il critico ideale. Lui è presente sui social, è attivo, ma indossa una maschera che lo rende irriconoscibile, permettendogli di andare a visitare i ristoranti in maniera non così teatrale, come un qualsiasi cliente, e poi di scrivere senza condizionamenti.
Sai quanti gestori dopo aver consumato ed essermi presentato, sapendo che non sarei tornato in quel locale se non dopo anni, si pentivano della scelta fatta e mi dicevano: – ah, se avessi saputo chi fosse, le avrei fatto provare dei piatti o dei vini diversi? -.
Questa era una cosa che non sopportavo! Perché un cliente qualunque deve essere trattato meno bene di un Ispettore, anche se della Guida Michelin?
Si deduce che, i concorsi o le guide che un tempo erano valevoli, ora sono stati inghiottiti da questi meccanismi e risulta difficile capire quali siano quelli autentici.
Proviamo a trarre una conclusione, secondo te in quale direzione sta andando il mondo della cucina, e quale sarebbe la cosa giusta da fare oggi per migliorare le prospettive future?
Voglio portarti a fare un ragionamento. Quando si arriva a premiare un piatto definito “cannolo scomposto”, secondo te cosa sta succedendo? Secondo me, si sono perse di vista la sostanza e l’entità, vorrei dire storica, della cucina.
Per me le preparazioni di questo tipo non hanno senso. Si dovrebbe prendere coscienza che non esiste la cucina italiana, ma che in realtà, – e lo affermo con convinzione – esistono 20 cucine regionali, più o meno valide e riconosciute, nella loro povertà o nella loro ricchezza, che hanno un’identità ben precisa.
A questo punto, c’è da chiedersi, – cosa vuol dire “rivisitare”? – Se nel milanese volessero “rivisitare” l’osso buco, a che scopo stravolgerlo? Di questo si parla, di stravolgimento, al punto che non si può più riconoscere quel piatto per come era prima.
Se non me lo scrivi, io non lo capisco, non so cosa sto mangiando! Mi è successo più di una volta, di impiegare più tempo a leggere la descrizione del piatto che non a mangiarne il contenuto.
La cucina è una materia viva. È sempre in evoluzione, quindi vorrei capire, tu dici che la tradizione è la base, va salvaguardata, poi tutto quello che arriva basandosi sull’ispirazione, sull’interpretazione di un piatto storico, deve essere chiamato in un altro modo, è questo che intendi?
Torniamo al discorso del cannolo scomposto. Secondo me, non ha nessun senso. Se vai in Sicilia, e parli di una cosa del genere, non vieni capito. Non è un discorso affrontabile, perché il cannolo è uno, tutto è resto è un’altra cosa.
Se crei una preparazione che non è quella, mi vien da dire, universalmente riconosciuta e celebrata, chiamala come ti pare, ma non con il nome originario. Questa mania di voler rivisitare tutto, lascia il tempo che trova. Che poi con quali risultati? Parliamone! Spesso l’effetto è ben lontano dal valore del piatto tradizionale, ma a quel punto, è stato messo in carta e te lo devi tenere.
Però, tu lo sai che così stai mettendo in discussione l’operato di Chef blasonati?
Certo, ma ribadisco che questa è assolutamente una mia opinione.
Lo dicevo con ironia, anche perché la tua posizione mi sembra assolutamente coerente e condivisibile e soprattutto, oggi molto coraggiosa perché in tanti potrebbero avanzare delle critiche.
Guarda, io sono talmente democratico che sarei disposto anche ad ascoltare qualcuno che mi dicesse che Gesù sia morto di sonno. Ma noi sappiamo tutti che non è così.
Quindi, raccontami quello che ti pare, è una tua iniziativa e anche una tua responsabilità fare determinate affermazioni, ma poi, accetta il fatto che ci possa essere qualcuno a cui le tue creazioni non piacciano.
Esistono un buono oggettivo e un buono soggettivo, e visto che tutto si basa sulla creatività, sull’inventiva, sull’ego di chi produce, in qualche modo ci si espone, e ci si deve aspettare che qualcuno ti dica: – io questo piatto non lo vedo così buono, così bello e così ispirato – e non puoi impedirmi di comunicartelo.