Chi dice che sul Taburno troviamo soltanto aglianico e falanghina ancora non sa abbastanza.
In una caldissima giornata della scorsa estate rovente, in cerca di uno stacco, trascorro qualche giorno sul monte Taburno tra sagre, visite in cantina e passeggiate nei boschi.
Il fato e gli incontri fortunati un giorno mi hanno condotto a conoscere Cosimo Capasso giovanissimo e visionario piccolo imprenditore di Tocco Caudio (Bn). La Capasso Tartufi nasce dallo spirito ribelle e anticonformista di Cosimo che lasciando sgomenti l’intera famiglia pochi anni fa dichiara di volersi dedicare alla coltivazione del tartufo utilizzando parte dei terreni di proprietà di famiglia. La ricerca dei tartufi è stata sempre una passione di famiglia come i cavalli ed il vino, ma l’impresa dichiarata dal ragazzo agli occhi di tutti poteva sembrare una follia.
“Dovevo salvarmi e mettere la testa a posto” a poco più di venti anni aveva le idee chiare su come improntare la sua vita da adulto. Studia, impara, investe, mette su famiglia, crea una vera e propria filiera del tartufo.
Quel giorno sul Taburno non avevo idea di come si potesse chiedere alla natura di produrre quel tesoro proprio in quel posto preciso e condizionato dal nostro volere e desiderio.
Il Tartufo, patrimonio immateriale dell’umanità è il frutto emerso di un fungo sotterraneo. In pratica i tartufi sono funghi che si sono elevati a rango per arricchire i nostri piatti. Oltre al famosissimo d’Alba in Italia si raccolgono tartufi in quasi tutte le regioni.
A Tocco Caudio mi è stato mostrato come avviene la coltivazione, intorno ad alberelli di Rovella, vengono sapientemente disperse spore funginee. Con il tempo e la pazienza e con interventi dell’uomo ridotti al minimo, intorno alle radici dei piccoli arbusti crescono i tartufi di varietà diversa a seconda delle stagioni.
Nel periodo di raccolta il cane Lagotto Romagnolo, il più vocato per istinto, si muove allo scavo del prodotto che fedele consegna nelle mani del padrone. Il rituale va vissuto più che raccontato, cosi come mi viene difficile descrivere i sapori che ho sentito nella sala da degustazione, il tartufo che mi viene offerto si presenta in varie ricette e formati, scaglie, patè, con asparagi, nella pasta, nei taralli, con l’olio. In qualsiasi utilizzo diviene il protagonista indiscusso.
Se mi chiedeste, da sommelier, quale vino bere su questo prodotto posso offrirvi variabili infinite, vista la persistenza gustativa, l’aroma complesso ed il corroborante equilibrio tra acidità e sapidità del tartufo.
Sul Taburno la coltivazione della vite va ad appannaggio dei vitigni Aglianico e Falanghina del Sannio in via del tutto esclusiva. Tuttavia è necessario uscire dallo schema della falanghina di pronta beva dell’ultima annata e dell’aglianico ruvido da accostare solo a piatti complessi.
Le aziende vitivinicole del luogo hanno subito un processo di modernizzazione incastrando perfettamente le antiche tradizioni con le recenti esigenze di snellezza e modernità.
Quel giorno, ho immaginato di abbinare una falanghina del Sannio di almeno dieci anni con note evolutive pronte ad accompagnare gli aromi del tartufo oppure una fresca bollicina di rosato di Aglianico del Taburno spumantizzato per sostenere e nello stesso contrastare la complessità aromatica del tesoro nero. Lascio questo discorso aperto perché mi riservo di ritornare e degustare l’ambizioso prodotto abbinato anche a varianti non autoctone, (girano voci infatti su imminenti nuove proposte vitivinicole) e dichiarare il territorio delle Forche Caudine ancora una volta emblema di rivolta, stavolta nella storica viticoltura, a favore di una nuova conquista enogastronomica