La due giorni di Stelle in Marmilla, organizzata nel suggestivo scenario della cantina Su’entu di Sanluri, ha visto protagonisti i grandi nomi della cucina sarda, insigniti di recente dei prestigiosi riconoscimenti Michelin. Oltre a Italo Bassi, di ConFusion Boutique Restaurant Porto Cervo, presenti lo chef Stefano Deidda Dal Corsaro di Cagliari, Francesco Stara di Fradis Minoris e Salvatore Camedda di S’Omu insieme a Giacomo Serreli, Davide Atzeni di Coxinendi.
La partecipazione di questi chef segna una svolta epocale nell’evoluzione della cultura gastronomica sarda. Usando le parole di Domenico Sanna, responsabile dell’ospitalità della Cantina Su’entu, “è avvenuta quasi una rivoluzione copernicana”. Ci si lascia alle spalle il periodo dei singoli orti, dei muretti a secco, per unirsi in una grande squadra vincente. Sanna prosegue con un ringraziamento doveroso alla famiglia Pilloni che 12 anni fa, ha visto nella collina pietrosa dove sorge la cantina, un luogo di crescita e di potenzialità vincenti. E oggi, forti della loro lungimiranza, continuano a movimentare e valorizzare la vita gastronomica sarda, organizzando queste giornate di grande ispirazione per tutti.
Nel pomeriggio di chiusura dell’evento, abbiamo assistito al piacevole show-cooking condotto dal tristellato Italo Bassi, che in un confronto con la giornalista Lara de Luna, ha dimostrato una gran voglia di raccontarsi al pubblico presente.
Italo, tu ti senti sardo di adozione, anche perché trascorri molto tempo in quest’isola.
Si mi sento sardo, nonostante non sia nato qui, ma ho abbracciato la filosofia di vita del luogo in cui mi trovo. Porto Cervo, rappresenta un’importante vetrina, e superate le dinamiche complesse da far funzionare, mi ritengo molto fortunato. ConFusion si trova nella Promenade du port, a un passo dal porto vecchio, e accoglie una clientela internazionale. Nel mio ristorante ho potuto portare avanti una cucina che mi identifica. Utilizzando una materia prima di alto livello, che mi permette di realizzare piatti altrettanto pregevoli. Perché senza la qualità e la conoscenza degli ingredienti non si possono fare delle grandi preparazioni. È la base, poi c’è la tecnica, la presentazione, ma se manca la prima, non si può ottenere lo stesso risultato.
ConFusion rappresenta una fonte di grandi soddisfazioni. Ritrovo le stesse emozioni di quando, insieme a Luca Soldati, che oggi si trova qui con me, ho lavorato all’Enoteca Pinchiorri. Anche in questa occasione ha voluto essere presente, per scoprire cosa la Marmilla offre e per toccare con mano questa zona di Sardegna.
Parlando di materia prima, il tuo ristorante, ConFusion vuole esprimere nel senso più puro del termine, commistione e ispirazione, ma anche lo stare insieme una cucina. Questa filosofia, possiamo rapportarla alla ricetta che ci prepari oggi?
Si, certo, mi piace valorizzare e capire i prodotti del luogo. Oggi parto dalla pasta di un produttore locale, i cavatelli di cereali di Sardo Sole. Poi utilizzo l’olio extravergine e i ceci che sono ampiamente coltivati in Marmilla, così come altri legumi. Per rendere questo piatto ancora più curioso l’ho arricchito con lo sgombro che è un pesce povero e con dei pomodorini appassiti. Ho completato con un profumo di basilico e un tono avvolgente della liquirizia, anche se poco identificativo. La pasta deve essere orecchiabile, gustosa, mangereccia, senza andare a saturare i singoli ingredienti con i quali è stata arricchita.
Mi presento, perché per capire la mia vita attuale, bisogna partire dalle radici. Sono nato in Romagna, in una fattoria a contatto con la natura. Mio nonno era un bovaro. Un allevatore che insieme ai suoi fratelli coltivava e raccoglieva i frutti della terra. Inconsapevolmente, già allora facevano il biologico e praticavano la sostenibilità. Tutto ciò che oggi si cerca di ottenere, con un ritorno alle origini e al sano. L’essere cresciuto in questo modo mi ha arricchito di tante conoscenze legate ai prodotti. Mi ha permesso di non confondere il buono col cattivo e soprattutto di saperli distinguere per la loro stagionalità. Mio nonno a 3 anni mi ha dato una grande lezione, facendomi assaggiare il primo goccio di vino, e non quello non buono, affinché il suo sapore rimanesse impresso nella mia memoria rendendomi capace di riconoscere le differenze.
Lui e mio padre sono stati dei grandi insegnanti, ma colei che veramente mi ha formato e trasmesso la cultura alimentare familiare è stata mia madre. La nostra era una grande azienda agricola, formata da ben 24 persone, lei stava in cucina e faceva da mangiare per tutti. Io ero sempre lì, e mi accorgevo di quanto fosse complesso il suo ruolo. Cucinare per tanta gente che svolgeva un lavoro duro nei campi e nelle stalle, era davvero complesso. Perché erano ben consapevoli degli ingredienti di qualità che producevano e soprattutto avevano bisogno di cibo buono e abbondante.
Quindi è nato tutto come un gioco, stavo con lei e allo stesso tempo imparavo i segreti della cucina. impastavo i passatelli, preparavo ravioli e cappelletti. Mi divertivo così, e mai avrei immaginato, che un giorno sarebbe diventata la mia professione. I mestoli e le pentole al posto delle macchinine, poi la voglia di conoscere ed evadere, mi ha portato a proseguire su questa strada. Prima con l’iscrizione all’istituto alberghiero poi nei periodi estivi, lavorando nelle cucine degli alberghi romagnoli.
E più crescevo e più aumentavano la curiosità e gli stimoli, soprattutto nei confronti dei grandi ristoranti. Fino a quando ho avuto la grande fortuna di conoscere Igles Corelli. Un grande chef, anticipatore della cucina moderna e un grande sperimentatore, che al tempo aveva portato il suo piccolo ristorante di campagna a diventare uno dei luoghi più frequentati d’Europa. Nel suo Trigabolo di Argenta, sono nati molti chef di successo, tra cui Bruno Barbieri, oggi volto noto della televisione. Quello è stato il mio trampolino di lancio, lì ho capito che la strada che avevo davanti, poteva essere la mia.
Fra le tante persone a cui ho chiesto la possibilità di imparare ci fu Giorgio Pinchiorri, che mi riconosceva anche un piccolo compenso. Non arrivando da una famiglia facoltosa, ho accettato subito la sua proposta pensando, “lavoro, guadagno qualcosa, mi mantengo e investo su di me.” Così nel 1989, arrivai all’Enoteca Pinchiorri.
In uno dei templi della cucina italiana. Arrivare così giovane dalla Romagna, da un modo di vivere il cibo reale e molto concreto, ad uno dei templi del lusso della gastronomia, come ti ha fatto sentire e come è stato il primo impatto?
Il primo impatto fu terrificante, perché mi trovai per la prima volta davanti a ciò che avevo solo studiato sui libri. Una grande brigata di cucina dove c’erano le partite con i capopartita e i vari aiuti. Una dimensione lontanissima dalla mia realtà fino a quel momento. Io con molta umiltà, le capacità che avevo sviluppato e una assoluta determinazione, ho tenuto duro, e arrivato in punta di piedi, ho fatto sempre i lavori che mi venivano assegnati, partendo da quelli più umili come dare il cencio e svuotare i posacenere perché a quel tempo si fumava ancora in cucina.
Poi man mano che dimostravo le mie capacità arrivavano dei nuovi compiti. Così andai a scalare la scala gerarchica fino a diventare primo chef. Da lì sono iniziate le responsabilità, gli impegni e soprattutto le continue prove da dover sostenere per dimostrare di trovarmi nel ruolo e nel luogo giusto. È stato un percorso difficile, ma comunque divertente, perché le soddisfazioni si susseguivano di anno in anno, e soprattutto perché il lavoro mi piaceva molto e mi gratificava.
Poi alla ricerca di ancora nuovi stimoli e di nuovi obiettivi, sono arrivato alla consapevolezza di aver raggiunto il massimo. In quel momento non potevo comprare l’enoteca perché era fuori dalle mie disponibilità economiche, quindi ho pensato di dover ricominciare daccapo. Di dover fare tre passi indietro per poi farne uno in avanti. Così ho lasciato dopo ben 27 anni, aver girato tutto il mondo, conosciuto e lavorato con gli chef più prestigiosi e mangiato in ristoranti sparsi in ogni angolo del pianeta. Ma soprattutto, dopo aver riportato le tre stelle Michelin all’Enoteca Pinchiorri, come chef, a tutt’oggi più giovane, insignito di questo prestigioso riconoscimento.
Si prosegue con la ricetta. Lo sgombro è stato sfilettato e sbianchito per eliminare la parte grassa. Saltato in padella con l’olio extravergine poi aglio tritato, si lascia rosolare leggermente, si aggiungono i pomodori appassiti, e il sale. Con i ceci cotti, che uniamo alla preparazione, scoliamo la pasta e la mantechiamo.
Pasta, pomodori, legumi, pesce, sono degli abbinamenti molto tradizionali per la cucina italiana, qualcosa che ricorda le nostre radici. Prima hai citato Igles Corelli, un grandissimo modernizzatore della cucina. Oggi cosa si intende per cucina contemporanea italiana? La vera modernità in cucina qual è?
Secondo me, sta nella consapevolezza del prodotto che si usa. Nella ricerca della materia prima, e nel riuscire a trattarla con rispetto assoluto, senza violentarla, non destrutturandola, semmai valorizzando ogni singolo prodotto. Ecco qual è la mia visione di cucina moderna. Ogni ingrediente si deve distinguere e si deve percepire. Il piatto deve essere armonioso, così che si possano apprezzare tutti gli ingredienti, senza necessariamente avere una preparazione gastronomica da chef. Chiunque deve essere in grado di capire ciò che sta mangiando. E lo dico ancora una volta, la materia prima deve essere di grande qualità.
Tornando al piatto, la salsa è pronta, uniamo un po’ di pesto di basilico, che richiama la Liguria, amalgamiamo e presentiamo. Una crema di ceci come base è il filo conduttore, lo completiamo con l’olio extravergine a crudo e otteniamo un gusto avvolgente con della polvere di liquirizia. La filosofia ConFusion è quella di utilizzare la grande materia prima locale e aggiungere qualcosa come un’erba, una spezia, un aroma che faccia volare lontano le persone che si siedono a degustare il piatto. Quindi qualcosa che riporti alle stesse sensazioni di un viaggio, di un evento passato, di un momento, e che regali emozioni positive.
Con l’arrivo della televisione in cucina, si parla tanto di impiattamento, alcune volte anche estremizzando il concetto. Ma quanto sono importanti un piatto e la sua presentazione in un ristorante come il tuo, anche rispetto a chi magari non è avvezzo all’alta cucina?
Io penso che qualsiasi tipo di proposta, per qualsiasi tipo di ristorante, debba avere come base la cucina delle nostre radici, quella della trattoria e della mamma. Chiaramente la presentazione è importante, perché il primo impatto è quello visivo. Ma ciò che andiamo sempre a ricercare nelle preparazioni, e lo ribadisco con convinzione, deve essere il gusto. Il gusto e la consistenza sono le parti principali del piatto. Poi chiaramente se è bello, se è presentato bene, se ha dei colori che lo valorizzano ulteriormente, ben venga.
Se domani in un’intervista dall’altra parte del mondo ti chiedessero di descrivere la Sardegna in un paio di prodotti, quali sceglieresti?
Ho l’imbarazzo della scelta. Mi sono innamorato della Sardegna in primis per la materia prima che ha da offrire. Fra i tanti che potrei elencare, cito la bottarga di muggine, e il pomodoro. Spesso non capisco come mai, dei ristoranti usino dei prodotti non locali, quando quelli che hanno a disposizione a breve distanza, in realtà sono la fine del mondo. Ma poi anche le erbe spontanee, i frutti e tutti i prodotti della terra, soprattutto l’olio extravergine di cui la Sardegna è una grande produttrice, sono da andare a ricercare e da valorizzare ogni giorno di più.
Sta a noi cuochi scoprirli e avere un contatto con i produttori, ma sta anche a loro esporsi e presentarsi quando fanno delle buone materie prime. La trade union è importantissima, il cuoco emerge ed è l’attore principale, ma non sarebbe in grado di farlo se non ci fossero i fornitori, i collaboratori in cucina, chi lavora con lui e per lui con l’unico obiettivo di far stare bene il cliente.
Il cliente che diventa un ospite importante, al quale si vuol far vivere un’emozione e coinvolgerlo in un’esperienza unica. A partire dalla presentazione dei piatti nel menù, dal servizio di sala, perché venga accolto con calore, fino alla creazione di un ambiente piacevole, che non è dato solo dalle persone ma anche dalla struttura e dalla buona proposta di vini. E poi chiaramente prima di tutto, al ristorante si va per mangiare e quindi i piatti devono essere i protagonisti assoluti.