Nessun formalismo di maniera nel ristorante “Il Buco” dello chef Giuseppe Aversa nel cuore della penisola Sorrentina, al timone della cucina unitamente al proprio figlio Federico, con un’agguerrita crew di sala a rifinirne la proposta.  

Potrebbe parlarsi di reinterpretazione dei canoni dell’accoglienza, o ancor più semplicemente di una consapevolezza inveterata, quella di porre al centro del proprio canone operativo il benessere della clientela.

L’impressione che si ricava da una visita al ristorante “Il Buco” di Sorrento, durante una pausa pranzo di un’afosa giornata di inizio Giugno, è quella di un’alacre e radicata cultura egualitaria, quella per cui tutti i clienti vanno ricevuti e serviti allo stesso modo, poco importa se autoctoni fidelizzati, o provenienti da angoli remoti – come quotidianamente accade – per visitare questi luoghi senza tempo, amati nei cinque continenti.

Indubbiamente, l’elemento logistico gioca un ruolo dirimente, ci troviamo proprio a Piazza S. Antonino, ad un tiro di schioppo dal corso principale di Sorrento, sebbene non vi sia nessun panorama oleografico o di maniera ad alleggerire imperfezioni o sbavature nel servizio, venti anni di apertura e quindici di Stella Michelin come biglietto autorevole di presentazione.

L’ambizioso progetto è stato curato nei minimi dettagli, dando ampio risalto alla profondità prospettica della sala originaria, con una volta di archi di tufo che rappresentano simbolicamente una convivialità ancestrale, cui fa da contraltare la teoria di colori vivaci e seducenti degli arredi e suppellettili, come a dire la contemporaneità che irrompe nel passato, giusto tre i tavoli esterni, ubicati nella stradina d’accesso tipica del centro storico.

Bella e accogliente anche la sala al piano superiore, che ricrea le coordinate di un salotto di casa, con un mood sofisticato, eppure declinato in un’accezione da comfort-zone.

Spazio luminoso, dominato ai lati opposti da un funzionale bancone cucina con piastre ad induzione, per eventi e show-cooking, e dall’altro dall’eccezionale cantina – oltre mille le referenze disponibili – con tanto di tavoli al fresco, dove magari accomodarsi per gustare dei raffinati amous bouche e sbicchierare vini al calice.

Passando all’estesa degustazione, si inizia dai variegati appetizer, sui quali possono essere abbinati al calice, come informa l’elegante folder in carta d’Amalfi mostrato, lo Champagne Louis Roderer collezione 242, il Franciacorta Riserva Annamaria Clementi del 2013 della maison Cà del Bosco, o una serie di “pre-dinner cocktails”, assaggiamo il Buco Sling, con Gin Berto, limoncello artigianale, e succo di limoni di Sorrento, davvero delizioso e rinfrescante.

Sotto l’egida dell’alacre e affabile titolare, che accoglie personalmente i clienti al tavolo, per riceverne impressioni e opinioni, notiamo l’impeccabile coordinamento della sala, con pairing effettuati “a braccio”, in ragione delle preferenze dei singoli, spesso partendo dalle eccellenze regionali per estendersi alle zone vocate dell’intero mondo, tre i menù disponibili oltre alla possibilità di ordinare a la carte.

L’essenzialità diventa stile, e dopo avere apprezzato la selezione di pani artigianali – in evidenza la focaccia al rosmarino, i tarallucci con sugna pepe e mandorle e la schiacciatina alle erbe – è la volta del “gambero in oliocottura, salsa alle zucchine, burratina e fiore di zucca con sale agli agrumi”, in abbinamento il Villa Campagnano Antonio Mazzella I.G.T. 2020, sapiente cru in blend dei vitigni autoctoni ischitani Biancolella e Forastera.

Si prosegue con il “calamaro cotto a vapore profumato alle erbette ed aneto, zuppetta con farro e ceci”, mentre non esiterei a definire signature dish la successiva preparazione, l’eccezionale “linguina con ragout di scorfano, fiori di zucca, trito di bottarga e pomodori secchi”, un piatto trans-regionale che unisce cervello e palato, in un’amalgama di gusto davvero unica poiché sincretica.

In abbinamento, il sommelier stupisce con la potenza espressiva del Curtefranca Uccellanda 2016 D.O.C. di Bellavista, Chardonnay dalla Franciacorta, vino bianco, cremoso ed intenso, maturato per almeno 12 mesi in botti di rovere, il cui spessore ben contrasta la complessità del piatto.

È la volta del rigore volto alla ricerca dell’essenza, dunque sovviene il “filetto di spigola cotto al vapore con salsa agli asparagi, insalata di asparagi e fiori eduli”, bello il gioco di consistenza del vegetale, in pairing La Vila 2017 di Lis Neris Friuli Isonzo D.O.C., vitigno friulano in purezza, sintesi perfetta di freschezza e morbidezza.

Si conclude con il pre-dessert, per poi assaggiare un iconico dolce “antologico” ideato dallo chef che ne racchiude diversi della tradizione partenopea, la “base di sfogliatella frolla con cremoso, mousse al babà e crumble di sfogliatella riccia” – splendido anche l’impiattamento con gel al pomodoro e basilico in gocce che ne rifinisce il contorno – se ne apprezza la leggerezza al palato mai stucchevole, al calice un classico, il Passito di Pantelleria D.O.C. Ben Ryè 2020 di Donnafugata.

Non sembri troppo enfatico, al termine del congedo dallo chef, sulla strada del rientro e lasciata alla spalle la meravigliosa costiera, citare le parole di Goethe, con un rimando extradiegetico: “si dica e si dipinga quello che si vuole, ma la realtà in queste zone è sempre superiore alla rappresentazione e descrizione, che non ne coglie gli aspetti più immaginifici e fantasiosi”, frase che ben potrebbe attagliarsi alle sensazioni provate durante un pranzo al Buco di Sorrento. Provare per asseverare.

Carlo Straface

Carlo Straface, partenopeo di nascita, corso di studi in giurisprudenza, di professione avvocato e giornalista pubblicista, eno-gastronomia e letteratura le sue coordinate di riferimento. Sommelier di...

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