Dai social network alla TV passando per la libreria. Il food blogger Lorenzo Biagiarelli, classe 1989 e originario di Cremona, ci ha raccontato la sua passione per l’arte di sperimentare ed elaborare in cucina. Tra i suoi obiettivi diffondere la cultura di alimenti gastronomici troppo spesso lasciati ai margini.
Lorenzo, qual è stata la scintilla che ha fatto esplodere in te il desiderio di stare ai fornelli?
È una passione che c’è sempre stata. Come racconto spesso, ho iniziato a cucinare per sopravvivenza. Mia madre tornava tardi rispetto a quando uscivo da scuola, quindi dovevo scegliere se restare a digiuno o cavarmela da solo. Mi è sempre piaciuto cucinare in casa per me, per mia mamma, per gli amici. Poi negli anni è un’attività che ho approfondito, visto che da quando esiste internet imparare a cucinare è anche più facile, guardando video e leggendo storie, nozioni. Nel 2017, per una serie di motivazioni messe insieme, mi sono ritrovato a passare molto più tempo in cucina che in sala prove o in studio, poiché in precedenza facevo il musicista. Allora mi sono chiesto, cosa voglio fare da grande? Dal momento che avevo accantonato l’intenzione di laurearmi quando mi sono innamorato e la musica non faceva più parte di quello che mi piaceva fare, era rimasta la cucina.
E così da musicista ti sei ritrovato poi a essere un food blogger e social chef.
Social chef è un’espressione meno giusta di food blogger. Non mi piace perché c’è dentro la parola “chef”. Come dico sempre, non lo sono e tanti altri che si definiscono chef non sono chef. Gli chef sono quelli che stanno in brigata, che la comandano, che hanno il loro ristorante e sono a capo di una cucina fisicamente, magari 16 ore al giorno tutta la settimana. Oppure coloro che grazie a questa pratica ripetuta negli anni ora sono affrancati e possono anche star fuori e fare dell’altro ma sempre chef rimangono. Se non hai fatto questo passaggio, non credo che la parola chef sia giusta da usare. Ogni tanto, giornalisticamente, mi viene attribuita la locuzione social chef, nel senso che cucino sui social network, ma questa espressione non me la sento molto addosso.
Come strumenti di comunicazione, hai sia un blog che, ovviamente, pagine social. Quali sono gli argomenti prevalenti?
Il blog è un po’ dormiente, è nato dopo i miei canali social. I cambiamenti di algoritmi rendono meno visibili i post se sono pubblicati da un sito rispetto se direttamente sui social network. Il mio sito sta vivendo un momento di transizione. Tutto quello che faccio è su Facebook e Instagram, che sono molto più performanti e parlano a più persone. Sulle mie pagine social uno ci trova un po’ di tutto. Ci sono ricette, cucina da viaggio impropriamente detta “etnica”, resoconti dei miei viaggi, ma anche tutte quelle che sono esperienze quotidiane che hanno a che fare con il cibo, prodotti, scoperte al supermercato sotto casa. Per esempio, da quali sono i migliori biscotti che puoi comprare all’iper alla ventricina teramana che al momento è una delle mie cose preferite.
Cosa vorresti arrivasse all’ampia fetta di followers raggiunti?
Vorrei che arrivasse chi sono, cosa mi piace, in cosa credo. Per quanto riguarda il cibo, penso che la tradizione di cui la nostra cultura alimentare è impropriamente disseminata sia qualcosa a cui dare il giusto peso. La usiamo molto più spesso come parola, quando vorremmo dire origini, la cucina delle origini che non esiste, è una cosa che esiste solo nelle idee ma non nei fatti, come non esiste la ricetta originale o classica. Tradizione si rifà al latino tradere, cioè tramandarsi, ma tutto ciò che è tramandato è anche tradito, perché nel passaggio si perde un pezzo, se ne aggiunge un altro, si migliora o si peggiora. Di solito qualcosa che sopravvive al tempo e subisce svariati cambiamenti per diventare migliore poi di fatto diventa migliore. Vorrei che passasse che la cucina non è un monolite, nemmeno quella italiana, ma è una cosa più viva di noi molto spesso.
Ricordi ancora il primo articolo o post pubblicato sulla cucina?
Il primo post pubblicato su Facebook era dedicato agli spatzle, gnocchetti verdi o gialli, un piatto sul tirolese o dell’Alto-Adige. In quel caso, preparai quelli gialli perché è proprio uno dei primi piatti di sopravvivenza che ho sperimentato all’età di 11 anni. Era stato proprio l’incipit della mia avventura nel mondo della cucina e quindi mi piaceva che fosse anche l’incipit della mia avventura online a distanza di anni. Ora li cucino in maniera diversa, li faccio io invece che comprarli al supermercato.
È il primo libro che ho scritto, per il momento anche l’ultimo poiché non ne ho altri in cantiere. Scrivere un libro è veramente un parto, non nel senso buono del termine ma in quello di sofferenza e lungaggine. Questo è nato in primo luogo da una proposta editoriale. Siccome scrivere è quello che facevo tutti i giorni, ho semplicemente provato a trasportare sulla carta storie che avrei raccontato anche sui social. Naturalmente la carta ti dà più spazio, puoi dilungarti, puoi tranquillamente superare le tremila battute di attenzione. Ho raccontato aneddoti della mia vita non perché la mia vita fosse interessante, ma in funzione del fatto che quegli aneddoti facessero ridere o riflettere. Ho preso un po’ di ispirazione dai libri di David Sedaris, umorista statunitense che scrive libri sostanzialmente autobiografici ma che in realtà sono comici. L’autobiografia è un mezzo per arrivare a un fine, nel caso di Sedaris della risata, nel mio caso del sorriso o dell’esperienza di una storia, accompagnata da una ricetta. C’è sempre una ricetta che fa da cornice alla propria vita. Per esempio, per gli studenti universitari è la pasta col tonno. Sono contentissimo di come il volume è venuto e ha venduto, dandomi tante soddisfazioni.
Nel 2019, su Real Time, sei stato uno dei giudici della trasmissione “Cortesie per gli ospiti B&B”.
Che esperienza è stata?
Cortesie per gli ospiti è stata la prima bella esperienza televisiva in un periodo della mia vita in cui per colpa mia non me la sono proprio goduta tantissimo. Bello girare l’Italia e scoprire storie familiari (con alcuni dei concorrenti sono ancora in contatto) e tantissimi prodotti che altrimenti non avrei conosciuto, tantissime ricette. Aggiungo la meraviglia di posti che non conoscevo come la Tuscia, lo cito sempre perché, tra i luoghi che abbiamo visitato, è uno dei meno conosciuti, meno considerati rispetto a quanto sia bella quella zona. Il programma mi ha anche insegnato che sono più performante nelle trasmissioni in diretta, mentre in quelle registrate sono un po’ più imbalsamato. In Cortesie per gli ospiti ero con Max Viola e Michela Andreozzi, due professionisti che la televisione la fanno da anni, due ingranaggi perfettamente oliati nella macchina. Il mio era ancora un po’ acerbo, ma credo che sia venuta fuori un’alchimia molto carina.
Anche durante l’estate 2020 ne hai approfittato per visitare varie regioni italiane. In un post di fine agosto scrivesti di un “viaggio caloricamente incredibile”. C’è davvero tanto di meraviglioso da scoprire nella nostra Italia gastronomica? Ricette, posti, maestranze legate al cibo.
Caloricamente senz’altro, anche perché tendo a mangiare molto. Vedete, le nostre abitudini alimentari sono spesso fossilizzate su quello che propone la grande distribuzione. Viaggiare è come andare nel più grande supermercato del mondo in Italia, perché ci sono prodotti incredibili, molti dei quali non conoscevo, altri li conoscevo senza averli mai provati in loco. A me le ricette interessano fino a un certo punto, mi coinvolgono quando raccontano una tradizione nel senso che abbiamo detto prima, una testimonianza del tempo che passa in un determinato territorio attraverso infinite famiglie che si tramandano cibo che continua a cambiare. Ciò in cui secondo me l’Italia eccelle sono prodotti e produttori. Noi diciamo sempre che l’Italia è la cucina migliore del mondo, non so se sia la migliore in assoluto. Ma, cosa vuol dire cucina italiana? In India ci sono 36 cucine regionali diverse, in Italia ce ne sono “solo” 21, perché poi ogni regione è un insieme di province e di comuni, ognuna con la sua storia e ricette che cambiano da un comune all’altro. Siamo i migliori del mondo quando si parla di prodotti, abbiamo una diversità, qualità, numero di prodotti tradizionali e dovremmo puntare su questo secondo me.
In queste settimane ti seguiamo a “È sempre Mezzogiorno”, il nuovo programma di Antonella Clerici su Rai1. Sin dalle prime apparizioni, si è visto che ti senti a tuo agio in questo contesto televisivo, con le tue incursioni allegre e gustose. Vero?
Mi piace È sempre Mezzogiorno, perché da una parte è una trasmissione educata, senza gare, se ne sentiva forse un po’ la mancanza. Dall’altra parte l’adoro perché mi danno veramente molta carta bianca di fare quello che voglio, ovvero divertirmi, dire un po’ di stupidate, mettere allegria, sempre con uno scopo importante che è la diffusione della cultura gastronomica, quella un po’ dimenticata. La mia rubrica si chiama “I cugini sfigati”. L’Italia è piena di cugini sfigati, cioè di piatti altrettanto buoni se non più buoni dei loro parenti più illustri. Pensiamo alla crescia sfogliata marchigiana paragonata alla piadina, famosissima in tutto il mondo.
Oltre alla partecipazione a “È sempre Mezzogiorno”, quali progetti hai per il presente e futuro? Abbiamo notato che stai realizzando delle lezioni di cucina online.
Sto scrivendo un format per la TV e sto lavorando molto sui social, tenendo appunto anche delle lezioni online di cucina. Non avevo voglia di farle fisiche, di radunare 30 persone dentro una cucina non me la sentivo a causa dell’epidemia da coronavirus. Ho provato dunque in rete e stanno andando benissimo, perché cerco di offrire un pacchetto completo, a un prezzo basso rispetto alle lezioni vere e poi inviando una box a casa con gli ingredienti più difficili da trovare. Insomma, cerco di offrire un servizio buono e professionale. Diciamo che i miei progetti sono trasversali, principalmente lavoro sui social per le aziende sempre molto selezionate e con contenuti belli, credibili, spontanei.