Diamante Renna-Gaita, vedova del compianto Antoine Gaita, insieme alla propria figlia Serena, è attualmente alla guida della propria azienda Villa Diamante, avendo ereditato lo straordinario retaggio del proprio coniuge.
Una frase paradigmatica di Antoine Gaita, Maestro scomparso dei vigneron d’Irpinia, recitava che “la capacità di un buon viticoltore deve essere quella di trasferire il terreno – si badi bene, non il terroir, termine logorato dall’uso – nel bicchiere, perché quello nessuno ce lo può sottrarre, né rubare”.
Per traslato, potremmo applicare tale icastico brocardo, alla presenza ideale del prematuramente scomparso produttore, intesa come persistenza della propria filosofia produttiva, nell’amore che guida l’operato dei propri familiari, a cagione del gravoso compito di perpetuarne la gestione: oggi l’azienda è guidata dalla signora Diamante, originaria degli Stati Uniti, forte e determinata, unitamente alla giovane figlia Serena, studentessa universitaria di enologia, grande appassionata della materia.
L’anno di fondazione aziendale risale al 1996, ad opera, come dicevamo, di Antoine Gaita – che di là a qualche anno sarebbe divenuto nume tutelare dell’intera denominazione di provenienza, ad onta delle prime produzioni “iniziatiche” diffuse in pochi ambienti ristretti – con delle scelte da vero artigiano, spesso tacciato di eterodossia dei fini: a partire dalla vigna, con coltivazioni su suoli argillosi spesso da vendemmie tardive, sino alla gestione della cantina, con l’utilizzo esclusivo di acciaio ed affinamenti protratti sulle fecce fine, procrastinandone la distribuzione commerciale, ed infine bassissime rese per ettaro.
Incontriamo la vedova Gaita in un soleggiato pomeriggio di inizio Giugno, una visita informale in azienda, anche residenza privata, alla presenza di quello che è stato uno dei principali allievi del marito mentore, nonché amico personale dai tempi dell’università, Paolo Clemente dell’azienda Vallisassoli.
La presenza di Antoine diviene concrezione, una linea affettiva e parentale che rappresenta un patrimonio spirituale d’amore per i parenti sopravvissuti alla sua repentina dipartita, tramutatasi in percezione di incombenza nello svolgimento dell’attività, diluita nel senso di responsabilità e di dedizione per la propria terra, nel puro insegnamento del Maestro, ed oggi ci si avvale della consulenza di Vincenzo Mercurio, enologo dalla fama internazionale.
Non avrebbe senso dilungarsi sul dibattito, che pure ha visto impegnati critici di settore, produttori e sommelier, sulla riconducibilità delle produzioni e vendemmie “post-Antoine” al suo stilema tecnico di lavorazione: lo scrivente non ne possederebbe le capacità e cognizioni tecnico-argomentative, essendo campo di speculazione che involgerebbe anche una parentesi sulle ragioni identitarie del Fiano d’Avellino, mutatesi profondamenti nel corso degli ultimi trent’anni.
Di sicuro l’imprimatur professionale del fondatore – per inciso, di origine belghe, e chimico di professione originaria, elemento dirimente nella sua vocazione – è evidente in alcuni riscontri, il suo è un Fiano che ha portato al raggiungimento di traguardi prestigiosi nel corso degli anni, potremmo dire nel gotha dei bianchi italiani per capacità di longevità, in particolare per il cru “Vigna della Congregazione”.
La produzione aziendale comprende diverse etichette, oltre ad alcune chicche che assaggeremo nel corso della partecipata ed appassionante degustazione: in primis, il menzionato “Vigna della Congregazione”, prodotto di punta dell’azienda, circa seimila bottiglie, da una vigna di 2 ettari, su suolo argilloso pietroso, con una esposizione straordinaria, peculiare della collina di Montefredane. Si prosegue con il più recente Clos D’Haut, una produzione minore per un nome mutuato dalle denominazioni della Borgogna, un vigneto caratterizzato dall’altitudine più elevata e dalla parziale delimitazione di alcuni muretti, produzione annuale di circa 2500 bottiglie.
Si prosegue con il Taurasi Riserva Libero Pensiero, annata 2008, penultima di quelle disponibile, grande longevità e persistenza per una produzione da uve conferite, scelte tuttavia personalmente da Antoine da vigne selezionate, e cangianti per singola vendemmia, nel solco della propria filosofia gestionale.
Ed infine, doveroso menzionare, fra i vini in degustazione, due etichette misconosciute allo scrivente, ma di grande fascino e incisività: il primo, Serena Rosè dell’annata 2007, aglianico vinifico in rosato prodotto con “uve raccolte da vigne vecchie in Paternopoli” come da retro-etichetta,, una vera e propria sfida produttiva per circa mille bottiglie, delizioso colore cerasuolo con note di geranio, ciliegia, melagrana, nessuna ossidazione, al palato vibrante e straordinariamente citrico e pulito. Si chiude infine con la seconda, altro esperimento di Antoine, la “Cuvèè Enrico Fiano di Avellino Doc”, annata 2000, vino ossidativo da “flor”, ottenuto in sostanza tramite affinamento da botti scolme che implicano una micro-ossigenazione, e la formazione di lieviti sulla parte del liquido residuale, una straordinaria e personale interpretazione di una classica metodologia produttiva d’oltralpe da vitigno autoctono.
Antoine Gaita, vigneron leggendario e innovatore avanguardista, la cui opera può essere codificata solo conoscendo realmente i territori di cui si era innamorato, e mai in maniera scevra da riferimenti simbolici, numerici, metodologici e simbolici ad altre realtà, impregnato di cultura empirica e nello stesso tempo filosofica com’era.